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Il regno di Aureliano
di Mariano Malavolta
“Nel giorno delle feste di Cibele il prefetto dell’Urbe
Giunio Tiberiano, dopo aver compiuto le sacre cerimonie mi accolse nel
suo cocchio giudiziale e conversò con me per tutto il tragitto
dal Palazzo fino ai giardini di Vario, soffermandosi in particolare sulla
vita degli imperatori. Giunti al tempio del Sole, costruito come tutti
sanno da Aureliano, che si diceva discendente da quella divinità,
il mio interlocutore mi domandò chi avesse scritto la vita di quell’imperatore
e quando io gli confessai che non esistevano biografie di lui in latino,
ma solo qualche opera in greco , il nobile personaggio, dolorosamente
colpito, esclamò: ‘Così i nostri posteri, come del
resto noi, conosceranno bene Tersite e Sinone, e tutti gli altri strani
personaggi dell’antichità, e non sapranno nulla di una figura
come quella di Aureliano, il glorioso principe e il severo imperatore
che restaurò la potenza romana nel mondo! È semplicemente
assurdo. Ma dal momento che, se non sbaglio, noi possediamo le cronache
del suo regno e il racconto storico delle sue guerre, perché non
riordini questo materiale aggiungendovi le notizie biografiche che, con
la consueta diligenza, potrai ricavare dai libri lintei sui quali egli
faceva annotare giorno per giorno tutti gli eventi che lo riguardavano?
Io farò in modo che questi testi, che ora si trovano nella biblioteca
Ulpia, vengano messi a tua disposizione’ ”.
È il 25 marzo del 292 d.C. (poco meno di 1712 anni fa), giorno
degli Hilaria, festa sacra alla dea Cibele , successiva all’equinozio
di primavera: occasione giocosa di una specie di mascherata che solennizzava,
come nota Macrobio, l’avvento del primo dì dell’anno
di durata più lunga di quella della notte . Il personaggio che
parla in prima persona, preso a bordo della presumibilmente lussuosissima
“auto blu” di Tiberiano è Flavio Vopisco siracusano,
uno dei sedicenti scriptores historiae Augustae, che in tal modo
introduce (con consumata abilità di scrittura) la sua biografia
dell’imperatore Aureliano e la giustifica con l’invito rivoltogli
da una persona di riguardo, che lo onora della sua amicizia, a celebrare
la degna figura di quell’imperatore, morto appena 17 anni prima.
Tutto questo potrebbe essere vero: Giunio Tiberiano fu veramente praefectus
urbi in quell’anno, come attestato dal Cronografo
del 354, ma secondo gli studiosi moderni non poteva disporre ancora, a
quell’epoca, del carpentum iudiciale (o vettura di servizio)
che sarebbe entrata a far parte della dotazione della sua carica solo
in età più tarda, ai tempi della prefettura di Simmaco del
384. Altra incongruenza: il percorso dal Palatino, sede del tempio di
Cibele, agli horti Variani (adiacenti al circo Variano, e dunque
dalle parti di Porta Maggiore), viene dall’autista di Tiberiano
impostato imboccando la strada che passava davanti al tempio del Sole,
costruito da Aureliano nel Campus Agrippae a partire dal 273
(fra via del Corso, via della Vite e via della Mercede, e dunque all’incirca
sotto s. Silvestro) : sembra quasi, a voler credere al nostro Autore,
che la vettura in questione abbia preferito, invece che dirigersi fra
Esquilino e Celio (nella direzione più ovvia), evitare il “centro”,
magari intasato da una folla di maschere, e tirare dritto per via del
Corso, per poi fare il giro delle mura di Aureliano (da qualche anno terminate).
Da questi e da molti altri indizi, rilevati dagli specialisti della difficile
ed interminabile opera di ermeneusi del testo della Historia Augusta,
risulta abbastanza evidente che proprio il nostro Vopisco, autore della
vita di Aureliano, è fra gli scriptores quello che sembra più
desideroso di suggerire al lettore indizi sulla fantasiosità della
sua mistificazione. D’altra parte, ancorché fantasiosa e
inaffidabile, la biografia di Vopisco ha conservato l’esclusiva,
in qualche modo profetizzata già dal suo autore, di essere l’unica
elaborazione di una qualche consistenza a noi tramandata dall’antichità,
e dunque mi è sembrato opportuno, in questa circostanza, richiamare
l’attenzione che essa merita, specie nel confronto con i modesti
materiali forniti dalla tradizione, che consistono per lo più di
poche righe dedicate ad Aureliano da epitomatori come Aurelio Vittore,
Eutropio, Orosio, o dall’anonima Epìtome de Caesaribus,
dalle compilazioni di Zosimo, di Xifilino, di Zonara e del lessico della
Suida, ai quali si aggiungono i pochi frammenti dell’ateniese Dessippo,
di Eunapio di Sardi e del c.d. Anonymus post Dionem.
Il dato che emerge dall’analisi delle fonti è istruttivo
soprattutto per illustrare il vigoroso recupero, come di campioni dell’ormai
evanescente romanità, con cui in extremis la storiografia di ispirazione
senatoria e di spiriti pagani affidava sommessamente ad una letteratura
pseudoepigrafa e dunque protetta dall’anonimato (anche se incline
a provocatorie denunce) il compito di esprimere il tardivo rimpianto per
la memoria, nei passati secoli spregiata, dei successori del primo Augusto.
Il tempestoso periodo di anarchia seguito alla uccisione di Severo Alessandro
nel 235 aveva in poco più di trent’anni pericolosamente minato
l’unità e l’organicità dell’impero, che
alla morte di Gallieno, nel 268, era smembrato e ridotto ad un centro
assai instabile (minacciato sulla frontiera danubiana) e nei due tronconi
semiautonomi dell’imperium Galliarum creato da Postumo
in difesa della frontiera renana, mentre a Oriente il confine coi Parti
(insidiato da Shapur, vincitore di Valeriano nel 260) era tenuto dalla
correctura Orientis di Odenato, incentrata sul regno Palmireno. Era stato
il sorgere di queste autonomie periferiche (quasi anticipazioni spontanee
delle prefetture del pretorio che di lì a poco sarebbero state
create dalla riforma amministrativa di Diocleziano) a salvare l’impero
dalla montante marea delle aggressioni esterne, e va detto che era stato
uno dei provvedimenti di Gallieno (l’esclusione dell’elemento
senatorio dalle legazioni di legione e dunque dai comandi militari) a
promuovere, all’incirca dopo il 264, uomini di valore come Aureolo,
Postumo, e gli stessi Aureliano e Probo, protagonisti della “ripresa”
del’impero attribuita ai restitutores Illyrici.
Quando, nel 270, la peste uccideva a Sirmium Claudio II vincitore dei
Goti, la scelta di un successore che continuasse il suo compito era d’importanza
vitale. La nomina di Quintillo, fratello di Claudio, fu appoggiata dal
senato e da quella parte dell’esercito che si trovava in Italia,
ad Aquileia, ma si mostrò ben presto inadeguata di fronte al pronunciamento
militare che si ebbe poco dopo proprio a Sirmium, in Pannonia, ossia nel
quartier generale del defunto imperatore: fu ben chiaro che sarebbe stato
Aureliano, capo della cavalleria di Claudio e incaricato delle operazioni
sul basso Danubio, a vestire la porpora e a Quintillo non restò
che togliersi la vita (gesto al quale egli fu spinto, a quel che pare,
dai suoi stessi soldati).
Ormai più che cinquantenne, nativo di Sirmio o di altra non precisata
località del confine danubiano, Lucio Domizio Aureliano - detto
manu ad ferrum per la prontezza e la ferocia delle sue punizioni - era
un duro soldato della nuova scuola, di umili origini, nato da un colono
già militare insediato nelle terre di un senatore Aurelio e da
una sacerdotessa del dio Sole. La sua brillante carriera lo aveva portato
a godere dei favori del ricco consolare Ulpio Crinito (che si pretendeva
discendente dell’imperatore Traiano), che al valente ufficiale avrebbe
anche dato in moglie la propria figlia Ulpia Severina. Le fonti ricordano
la sua partecipazione alle decisive azioni che avevano portato alla eliminazione
di Gallieno e, poco dopo, all’uccisione dell’usurpatore Aureolo
ed è indubbio il suo ruolo di braccio destro dell’imperatore
(dopo la riforma costantiniana si sarebbe detto il suo magister equitum),
e insieme con lui, di artefice della vittoria sui Goti (sbaragliati da
Aureliano a Dobero in Macedonia) e del loro completo sterminio, seguito
alla vittoria di Naisso.
Aureliano non poté subito raggiungere Roma, ma fu trattenuto sul
limes dalla necessità di intercettare i barbari Iutungi, reduci
da scorrerie nella Rezia, al passaggio del Danubio, costringendoli alla
resa e alla pace senza pagamento del tributo imperiale al quale essi erano
da tempo assuefatti. Fu forse dopo questo primo successo che Aureliano
poté recarsi nell’Urbe, per chiedere il riconoscimento del
senato, ma nuove minacce lo costrinsero a tornare subito sul Danubio per
respingere Vandali e Sarmati Iazigi che avevano invaso la Pannonia, e
che furono sconfitti nell’autunno del 270, ed exterminati, ossia
ricacciati oltre il Danubio. Non potendo provvedere con la stessa immediatezza
alla situazione in Oriente, Aureliano era costretto a riconoscere a Vaballato,
che regnava accudito dalla madre Zenobia, i titoli già concessi
da Gallieno a suo padre Odenato. A Roma, intanto, si faceva sentire il
malcontento dei partigiani di Quintillo, e ancor più grave era
divenuta la situazione verso la fine dell’anno 270: Iutungi e Alamanni
scendendo di nuovo in Italia, si erano spinti fino a Milano sconfiggendo
pesantemente Aureliano a Piacenza e dilagando fino in Umbria. La notizia
della disfatta imperiale aveva avuto riscontro in Oriente, dove Vaballato
già rector Orientis aveva assunto il titolo di Augusto: fu sicuramente
questo il momento più difficile del regno di Aureliano, che seguendo
l’antico costume consultò i libri sibillini l’11 gennaio
del 271 e fece eseguire i sacrifici espiatorii prescritti dai sacerdoti.
L’antica religione funzionò ancora una volta: subito dopo
gli Iutungi invasori vennero sconfitti a Fanum Fortunae e a Pavia e ricacciati
di nuovo oltre il Danubio. La crisi, che aveva dato luogo al sorgere di
nuovi usurpatori, come Urbano nella Mesia, Domiziano nella Narbonensis
e Settimio in Dalmazia, fu risolta e le rivolte furono domate quasi subito,
mentre l’unica vera sfida all’autorità del nuovo infaticabile
imperatore venne, nel centro dell’impero, dai funzionari della zecca
di Roma, che avevano “svalutato la moneta”, probabilmente
sottraendo il metallo prezioso nella coniazione: forse è da considerare
esagerato il particolare dei settemila caduti sul Celio nella repressione
di questa rivolta, che avrebbe portato ad una vera e propria battaglia
campale, ma è assai probabile che i motivi di scontento dei monetieri,
sino ad allora abituati ad una totale libertà di azione, siano
stati condivisi anche da tutta una serie di persone (fra le quali elementi
del senato già partigiani di Quintillo e le loro vaste clientele)
che nelle difficoltà del primo anno di Aureliano avevano intravisto
la possibilità di una aperta ribellione, alimentata dal clima di
aletorietà e di perenne rischio cui la grande metropoli si sentiva
esposta per la continua presenza di orde di barbari saccheggiatori nelle
regioni immediatamente adiecenti. Questo spiega la decisa risoluzione
di avviare, subito dopo la repressione della rivolta del monetiere Felicissimus,
la costruzione delle famose mura, iniziata nel 271 e terminata durante
il regno di Probo: un baluardo efficace non soltanto contro l’eventualità
di una vera invasione, ma anche contro il senso di instabilità
indotto dalla stessa collettiva percezione di un così grande ed
inerme agglomerato urbano.
Sistemate in tal modo le cose a Roma e in Italia l’imperatore poté
rivolgersi alla situazione del fronte orientale (un problema sicuramente
prioritario rispetto alla secessione di Tetrico, divenuto Augusto dell’imperium
Galliarum), servendosi anche dell’aiuto di Probo, uno dei più
valenti generali al suo servizio (e che di fatto gli succederà
sul trono). In Oriente Vaballato e sua madre Zenobia si erano infatti
sottratti al pur formale vincolo di vassallaggio tenuto in passato da
Odenato, ed avevano invaso l’Egitto. Qui agì Probo, che riuscì
a recuperare la provincia, mentre Aureliano diretto in Oriente attraversava
la regione balcanica in Dacia: una pausa nel viaggio del corpo di spedizione
diretto in Oriente fu necessaria per respingere un’orda di Goti
al comando di Cannabauda, che si erano resi non poco molesti con scorrerie
nella provincia di Mesia, al punto di convincere gli stati maggiori romani
ad accelerere l’abbandono delle provincia oltre il Danubio, conquistata
e ordinata da Traiano nel primo decennio del secondo secolo, trasferendone
gli abitanti sulla riva destra del fiume, lungo la quale veniva riformato
il limes dell’impero, riconducendolo dentro quello che a suo tempo
Augusto aveva individuato cone confine naturale.
Aureliano passò poi in Bitinia (una delle province rimaste fedeli
a Roma) e dalla Bitinia passò nella Galazia, che i Palmireni in
ritirata lasciarono nelle mani degli imperiali. Costoro poterono così
giungere indisturbati fino a Tiana in Cappadocia, nel cuore dell’Anatolia,
conquistata senza strage dei suoi abitanti. Le truppe dei Palmireni, guidate
da Septimius Zabdas, avevano nel frattempo attraversato la Cilicia e si
erano attestate in Siria, sul fiume Oronte, davanti alla città
di Antiochia, dove una prima battaglia fu vinta dalla cavalleria romana.
Ai Palmireni riuscì di ritirarsi, lasciando per copertura un presidio
a Dafne (sobborgo di Antiochia), per riorganizzarsi poi più a Sud,
presso Apamea. Ma ad Aureliano non fu difficile sbarazzarsi della spina
di Dafne, e poi conquistare via via, lungo il corso dell’Oronte,
le città di Apamea, Larisa, Aretusa, per giungere finalmente ad
Emesa, dove si svolse la battaglia decisiva con le truppe palmirene guidate
di Zabdas, che fu battuto ancora una volta e fuggì con Zenobia
verso il deserto, alla volta di Palmira. Nell’agosto del 272 cadeva
anche la città di Palmira, centro dello stato di Zenobia, e venivano
fatti prigionieri la stessa Zenobia, Vaballato suo figlio e Zabdas, mentre
veniva spietatamente messo a morte il retore Longino, denunciato come
fraudolento consigliere dalla sua regina. Aureliano poteva così
lasciare a Palmira Marcellino, funzionario di rango equestre, con il titolo
di rector totius Orientis e di praefectus Mesopotamiae (titolo che implicava
una specie di opzione per un programmato recupero della provincia strappata
a Valeriano da Shapur).
Il viaggio di ritorno dall’Oriente fu, al solito, non poco accidentato
dall’addensarsi di insidie barbariche sui confini. Fra Carsio e
Sucidava (sempre lungo il Danubio) Aureliano doveva battere i Carpi, accogliendone
parecchi sbandati in Tracia e ancora, nel settembre dell’anno 272,
la prosecuzione del viaggio di ritorno verso Roma fu impedita da una violenta
sollevazione in Alessandria e in Palmira: qui veniva proclamato imperatore
un certo Apseo, che a sua volta insediava sul trono di Palmira un Antioco
parente di Odenato, mentre ad Alessandria fu un tal Firmo, ricco mercante
di Seleucia di Siria, ad assumere il titolo di corrector, sospendendo
l’invio a Roma del grano prodotto nella valle del Nilo. Fu dunque
negli ultimi mesi del 272 che Aureliano, tornato a Palmira, decise di
cancellare quell’antica città centro del commercio carovaniero,
distruggendola e riducendola ad un semplice castrum limitaneo; fulmineo
fu pure il suo passaggio ad Alessandria, dove Firmo fu costretto a darsi
la morte (dopo avere invano invocato l’aiuto dei bellicosi Blemi
dell’alto Nilo).
Tutto l’Oriente era tornato sotto il dominio di Roma e Aureliano
potè finalmente occuparsi della questione dell’imperium Galliarum,
allora retto da Tetrico proclamatosi Augusto, che aveva proceduto a nominare
Cesare suo figlio omonimo. Anche per questa campagna ci limitiamo a segnalare
la netta vittoria degli imperiali ai Campi Catalauni (Châlons in
Champagne), in una battaglia nel corso della quale lo stesso Tetrico si
risolse saggiamente a passare dalla parte del legittimo imperatore, che
poteva così, lasciando a Probo l’incarico di ricacciare oltre
il Reno Franchi e Alemanni, tornare a Roma, e iniziare il suo soggiorno
nella capitale.
Dopo adeguati preparativi un memorabile trionfo, celebrato al principio
del 274, fu reso insigne dalla contemporanea presenza di Tetrico (con
i suoi figli, uno dei quali già Augusto associato a suo padre)
e di Zenobia, immancabilmente paragonata, nelle fonti, alla Cleopatra
che aveva reso memorabile il trionfo di Cesare, accompagnata dal figlio
Vaballato. Donna di qualità notevoli, e di vasta cultura storica,
autrice di un compendio di storia alessandrina e orientale, Zenobia “fu
trascinata dietro il carro trionfale di Aureliano con uno sfarzo mai visto
a Roma, adorna di gemme così pesanti che ne era quasi soffocata,
piedi e mani legate da catene d’oro, accompagnata da una guardia
persiana che le sorreggeva il collare pure d’oro. Aureliano non
la fece uccidere, e si dice che ella sia vissuta come una matrona romana
nei pressi di Tivoli, in un podere ancor oggi chiamato Zenobia, non lontano
dalla villa di Adriano e dal paesino di Conca”.
Un riscontro prezioso delle notizie sulla serie irresistibile dei successi
militari è rappresentato dalla documentazione epigrafica, che nella
titolatura di Aureliano si modificò via via con l’accrescersi
del numero dei cognomina ex virtute. Lucius Domitius Aurelianus,
divenuto Imperator Caesar Lucius Domitius Aurelianus pius felix invictus
Augustus, assunsee già nel 270 l’appellativo di Germanicus
maximus (dopo la vittoria su Iutungi e Marcomanni) e, ancora nello stesso
anno 270, quello di Sarmaticus maximus (dopo la campagna contro i Vandali
aiutati dai Sarmati). Agli ultimi mesi del 271 deve farsi risalire il
cognomen di Gothicus maximus, mentre nel 272, dopo la vittoria su Zenobia,
egli poté dirsi Parthicus maximus (per l’aiuto dato
dai Parti a Zenobia), Persicus maximus (titolo equivalente) e
Palmyrenicus maximus (usato a Brixia e una sola volta, ovviamente
perché considerato riduttivo rispetto a Parthicus o Persicus,
che invece enfatizzavano la partecipazione partica al tentativo di difesa
del regno palmireno di Zenobia). Successivo alle imprese in Oriente fu
pure, nel 272, il titolo di Arabicus maximus, mentre di lì
a poco, nello stesso anno 272, Aureliano guadagnava l’appellativo
di Carpicus maximus (dal nome dei nemici sconfitti sul Danubio).
Seguì, dopo il trionfo del 274, l’appellativo che sicuramente
può ritenersi il più significativo della sua titolatura:
restitutor orbis, quasi un esergo in margine alla sua effigie,
attestato anche nelle varianti pacator et restitutor orbis, recuperator
patriae, recuperata re publica, restitutor patriae (nei quali ultimi
è evidente un’ideologia di recupero di antichi valori), mentre
nell’imperator Horientis non meno evidente risulta il definirsi,
nella percezione collettiva degli abitanti dell’impero, di quell’ambito
geografico che preludeva al configurarsi della dioclezianea diocesi d’Oriente,
magna pars della longeva pars Orientis che avebbe legato
il proprio destino a quello di Bisanzio.
Un’anticipazione delle movenze tipiche delle titolature imperiali
del dominato, successive all’avvento di Diocleziano e della tetrarchia,
appare, in più di venti iscrizioni, nella locuzione dominus noster,
che sostituisce quella di Imperator Caesar, tipica del principato;
nelle iscrizioni in lingua greca il latino dominus viene ampliato nella
formula ghès kai thalàsses kai pàses oikoumènes
despòtes (ossia “padrone della terra e del mare e di
tutta l’ecumène”), né fu infrequente il caso
di iscrizioni in cui Aureliano, ancora in vita, fu detto divus, deus,
deus et dominus natus (quest’ultima appare su leggende monetali).
Emerge con evidenza, insomma, anche da questo più che sommario
esame della documentazione, una sensibile accelerazione di quello che
era stato il lento ma continuo processo di consacrazione dell’imperatore,
dopo che il carattere carismatico dell’autorità imperiale,
espresso nel termine di Augustus, si era trasformato da personale
in istituzionale, giungendo con Aureliano ad una formulazione più
precisa ed inequivocabile del carattere ultraterreno del potere imperiale
e della nuova ideologia monarchica di “imperatore per grazia divina”,
che ormai sostituiva l’ideale del principato civile, di spirito
repubblicano e senatorio. Eloquente, al riguardo, l’episodio narrato
dal cosiddetto Anonymus post Dionem: “In occasione di una
rivolta militare Aureliano disse che i soldati si ingannavano, se ritenevano
che il destino dei re fosse nelle loro mani: era invece il dio che gli
aveva dato la porpora – e la mostrava con la destra – e che
stabiliva, anche, il tempo del regno” .
Questa affermazione spiega anche la politica religiosa dell’imperatore,
coronata nel 274 con la costruzione del tempio del Sole e la istituzione
di un collegio di senatori detti pontifices dei Solis che affiancava il
vecchio collegio dei pontifices maiores. Il nume materno di Aureliano,
il Sole dio di Emesa, doveva essere il centro del rinato paganesimo, che
proprio ad Emesa aveva assistito Aureliano nella battaglia decisiva e
che ora tornava, dopo il tragico insuccesso dei tempi di Elagabalo, a
godere della venerazione dei Romani e a riunire nel suo culto adoratori
greci e romani di Apollo e devoti orientali di Mitra ed Elagabal, mentre
la forma del culto si faceva, nei canoni ufficiali, romana. Un agone sacro
quinquennale istituito more Graeco dallo stesso Aureliano in onore del
dio Sol invictus si affiancava all’agon Capitolinus istituito da
Domiziano nell’86, e la centralità di Roma, insieme con l’universale
dominio del popolo romano, trovava una nuova affermazione nel culto tributato
alle statue del genius publicus populi Romani.
L’oro confiscato a Palmira e in tutto l’Oriente, insieme con
i redditi delle province riconquistate all’amministrazione centrale
crearono una congiuntura favorevole a riforme economiche di rilievo. Aureliano
poteva così, nello stesso anno 274, bruciare nel Foro i registri
del debito pubblico e, sul versante della riforma monetaria, dopo l’interruzione
imposta dalla sanguinosa rivolta del 271, riprendere la coniazione in
argento a titolo migliorato e con la concentrazione esclusivamente nelle
mani dell'’mperatore del diritto di battere moneta. Anche un potenziamento
della organizzazione annonaria consentì l'’ntroduzione della
distribuzione al popolo di pane confezionato, olio, carne porcina e vino,
garantite da prestazioni obbligatorie imposte alle corporazione dei pistores
romani e dei navicularii o battellieri del Tevere e del Nilo, la cui opera
si rese indispensabile per il funzionamento di un pubblico servizio esteso
ora ad una massa di plebs urbana di dimensioni notevolmente accresciute
(dal numero tradizionale di duecento o duecentocinquantamila capita si
era passati a quasi trecentomila): si trattava, per le corporazioni, di
sopportare corvées di carattere militaresco, inizio di una pratica
di servizio coattivo del lavoro, che fu esteso anche alla immane opera
di costruzione delle mura, affidata a manodopere professionali.
Già nel lontano passato le missioni in Oriente si rivelarono spesso
fatali per i destini dell’impero. Mentre si accingeva ai preparativi
per l’accennata spedizione in Mesopotamia, la terra fra i due fiumi,
rimasta in gran parte in mano ai Persiani, Aureliano fu vittima di una
vendetta privata innescata da un banale incidente occorso in Tracia, sulla
via fra Perinto e Bisanzio, in una località chiamata Cenofrurio
dove il suo segretario personale Eros (o Mnesteo), colto in flagrante
prevaricazione e minacciato di punizione, riuscì con un documento
falsificato a convincere alcuni ufficiali dello stato maggiore che anche
la loro vita era in pericolo (aneddoti del tutto simili si raccontano
per le uccisioni di Domiziano e di Commodo). Fu dunque decisa di comune
accordo con Eros l’uccisione dell’imperatore per evitarne
la minacciata reazione, e soltanto quando era troppo tardi venne a galla
la verità. Eros fu subito punito con la morte, e l’esercito
non volle acclamare alcuno degli assassini di Aureliano, e anzi ripetutamente
rinviò al senato la scelta del nuovo imperatore. Per circa sei
mesi, fra l’aprile e il settembre del 275, l’imperatrice Severina
regnò in nome del defunto consorte, come mostrano le sue monete,
battute da tutte le zecche coi tipi della concordia Augg., fino
a che si riuscì a persuadere il settantacinquenne Tacito ad accettare
un onore che equivaleva ad una sicura condanna a morte.
Nella interminabile galleria dei ritratti degli imperatori romani il
nome di Aureliano è dunque da registrare fra quelli che la nostra
memoria collettiva non ha potuto dimenticare: non tanto perché
esso sia legato ad una particolare iconografia (la sua figura è
nota solo da tipi monetali piuttosto stereotipati) ma a motivo della spettacolare
onnipresenza delle grandiose mura di cui egli dotò l’Urbe,
che con i 19 chilometri del loro percorso sono certamente fra i più
vistosi resti del mondo antico. Un doveroso tributo a questa più
che millenaria sopravvivenza e insieme una non meno doverosa denuncia
dell’affievolirsi del nostro senso comune della storia vuole essere,
in chiusura di questo nostro rito collettivo di rievocazione, la riflessione
su un avvenimento recente che ha portato alla ribalta dell’attualità
il nome del nostro buon imperatore. Mi riferisco al crollo, avvenuto nell’aprile
del 2001 (e dunque con geometrica precisione in prossimità del
compiersi dell’anno 2753 a.u.c.), di un tratto delle mura adiacenti
alla Porta S. Sebastiano, e al contenuto di alcuni notiziari ascoltati
casualmente durante i soliti interminabili spostamenti in città.
La notizia, diffusa in prima battuta, riferiva del crollo in modo corretto,
aggiungendo che esso si era verificato in corrispondenza di un segmento
della cinta già sottoposto a restauro nel corso degli anni settanta:
non veniva stabilito, si badi bene, un nesso di causa ed effetto fra il
restauro e il crollo, ma si forniva una informazione più che dovuta,
e la si forniva in modo che non può assolutamente considerarsi
tendenzioso e anzi possiamo aggiungere che sarebbe stato disonesto tacere
sulla circostanza di quel lavoro di restauro, visto che fatti più
recenti e ancor più drammatici ci hanno mostrato che questi antichi
manufatti quasi mai cadono da soli, senza almeno un piccolo “aiutino”
di “tecnici” più o meno contemporanei e sapientissimi.
Poche ore dopo, nel pomeriggio, un secondo notiziario replicava la notizia
del crollo, accompagnandola con una risibile levata di scudi: una riunione
di tecnici della Soprintendenza nel corso della quale il crollo veniva
spiegato con la circostanza che le mura erano state costruite in fretta,
alla meglio e insomma non bene in una città ormai minacciata da
incombenti orde barbariche e in piena crisi del terzo secolo. Soltanto
il giorno successivo fu diffusa, in terza battuta, la banale verità
che il maldestro restauro degli anni settanta (in piena crisi del centro
sinistra, direbbe oggi qualcuno molto in alto) ostruendo a forza di cemento
gli antichi drenaggi del muro, aveva impedito il regolare deflusso delle
acque piovane responsabili (si fa per dire) del successivo spanciamento
del venerando manufatto. Mi è rimasta la curiosità di sapere
qualcosa di più sull’identità di quegli esperti o
tecnici che in pieno 2001, in una città nella quale crollavano
a sorpresa palazzine costruite in cemento armato dopo il 1970 da ingegneri
laureati nelle nostre università (e non nel Politecnico alessandrino
di Erone), sono riusciti a dire che quell’antico muro, costruito
fra il 271 e il 276 dell’era volgare e rimasto in piedi per più
di 1700 anni, sopravvivendo a centinaia di terremoti, alluvioni, attacchi
di artiglieria, spoliazioni di materiale edilizio, crollava ora perché
costruito male, in fretta e in un momento di crisi. Pensai anche, ricordo
bene, che quella vergognosa distorsione della verità non poteva
essere addebitata agli esperti della Soprintendenza che volevano giocare
a scaricabarile sul povero, oltre che defunto e dunque non perseguibile
Aureliano, e conclusi che fosse stata mancanza del cronista fraintendere
il senso di parole venate di sottile ironia. Ma pare che non vi sia stata
alcuna ironia e al nume qui presente del divo Aureliano siamo debitori
di questo stimolo a continuare a servirci della storia antica per capire
il nostro presente: qualcuno ha di recente affermato, con autorevolezza
non inferiore a quella del severo imperatore, che tutti i politici di
professione sono ladri, e io aggiungerei un “forse”. Invece
è sicuro, al di là di qualsiasi ragionevole dubbio, che
qualche archeologo di professione meriti d’esser chiamato idiota.
Nota bibliografica
Fonti della vita e del regno di Aureliano possono considerarsi le poco
attendibili vite degli S.H.A., a cominciare dalla Vita Aureliani attribuita
a Flavio Vopisco, cui possono affiancarsi le vite di Tetrico, Zenobia,
Odenato e alcune fra quelle dei c.d. Trenta tiranni. Vi sono poi naturalmente
i brevi passi di Eutropio (su quest’ultimo S. RATTI, Les empereurs
romains d’Auguste à Dioclétien dans le Bréviaire
d’Eutrope, Paris 1996, pp. 332-339), Aurelio Vittore (Liber
de Caesaribus), dell’anonimo autore della Epìtome
de Caesaribus, i frammenti pervenuti delle cronache di Dexippo ed
Eunapio, confluite nella Storia nuova di Zosimo e altri cenni in Màlala,
Xifilino, Zonara, Orosio e nel Cronografo del 354, oltre che varie voci
del lessico della Suida. Le epigrafi sono passate in rassegna da G. SOTGIU,
Studi sull’epigrafia di Aureliano, Palermo [Palumbo] 1961
(della stessa Sotgiu la più recente rassegna in “A.N.R.W.”
del 1975).
Sulla figura di Aureliano informano ampiamente il lavoro monografico di
L. HOMO, Essai sur le régne de l’empereur Aurélien
(270-275), Paris 1904, e le ottime sintesi di F. FUCHS, s.v. Aurelianus,
in “Diz. epigr.” I, Roma 1895, pp. 930-937; G. M. COLUMBA,
s.v. Aureliano, in “Enc. it.” V (1930), pp. 365-368; ampio
spazio alla figura di Aureliano viene dedicato nelle trattazioni manualistiche:
A. CALDERINI, I Severi. La crisi dell’impero nel III secolo,
Bologna 1949, pp. 197-211; L. PARETI, Storia di Roma e del mondo romano.
VI. Da Decio a Costantino (251-337 d.C.), Torino 1961, pp. 70-107;
H. MATTINGLY, La ripresa dell’impero, in “Crisi e ripresa
dell’impero”, Milano 1970, pp. 345-359 (traduzione italiana
della “C.A.H.” vol. XII, 1, London 1961); M. A. LEVI, L’impero
romano dalla battaglia di Azio alla morte di Teodosio I, Milano 1967,
pp. 915-929 (ristampa dell’ed. di Torino [S.E.I.] 1963). Sulla rivolta
dei monetieri v. soprattutto C. GATTI, La politica monetaria di Aureliano,
in “La parola del passato” XVI (1961) pp. 93 sgg. –
Per l’iconografia di Aureliano, che la Vita del sedicente Vopisco
(cap. 6) e Malala (12, 229, 18 p. 67 SCHENK) descrivono come un uomo di
alta statura, di grande forza fisica e di aspetto maestoso, anche se non
corpulento, con occhi piccoli e canuto (così Zozimo, I, 51 BEKKER),
si veda D. FACCENNA, s.v. Aureliano, in “E.A.A.” I, Roma 1958,
pp. 928-930 e figg. 1165, 1166. Secondo Aurelio Vittore egli avrebbe,
primo fra i Romani, portato sul capo il diadema ornato da una stella,
ma questo ornamento non compare sulle monete, in cui sia il costume, sia
la moda della barba e dei capelli tagliati corti, non subiscono modifiche
rispetto a quelli del suo predecessore Claudio II il Gotico; si veda anche
la postilla di aggiornamento curata da K. FITSCHEN nel “Secondo
supplemento”, I, Roma 1984, p. 565, dove si osserva che dell’imperatore
Aureliano non è stato finora identificato con certezza alcun ritratto
a tutto tondo: un dato inspiegabile se si considera l’importanza
storica del personaggio e il periodo relativamente lungo del suo regno.
La difficoltà di identificazione è dovuta anche allo stile
dei ritratti monetali, che non presentano caratteristiche individualizzanti
e che divergono fortemente in alcuni dettagli quali la forma del cranio
e l’attaccatura dei capelli.
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