|
Sei in > Storia della monetaLA MONETA MEDIEVALELe categorie storiche tradizionali pongono l'inizio del Medioevo alla caduta dell’Impero Romano di Occidente ma, dal punto di vista numismatico, non si notano nette censure nel sistema monetario, rimasto sostanzialmente quello romano, fondato sul solido e sul suo terzo, il tremisse, i nominali più coniati rispettivamente in Occidente ed in Oriente.
Evidentemente, però, la mancanza di coordinamento e controllo fu la causa di degenerazioni ed abusi (l’oro sempre più svilito con l’aggiunta di argento e tondello sempre più largo e sottile, forse nell’intento di far confondere il tremisse con il solido di maggior valore). Secc. VIII e IX
Il successore e figlio Carlo Magno si limitò dapprima a sostituire il suo nome a quello del padre, così come dopo l’annessione del regno dei Longobardi lasciò coniare tremissi d’oro come quelli emessi da Desiderio, ma successivamente si trovò nella necessità di procedere ad una riforma. Nel Concilio di Mantova del 781 vietò, infatti di utilizzare le monete correnti, che dovevano essere sostituite dai denari di argento da gr. 1,3 emessi ora anche in zecche italiane, come Milano Parma, Piacenza, Treviso , Lucca ed altre. Il vecchio solido aureo poteva, dunque, essere scambiato con 12 denari (cfr. il consueto rapporto di 1:12 tra oro ed argento nel bacino del Mediterraneo). Ciò derivava, oltre che da una esigenza di coerenza e uniformità di circolazione nell’ambito di una stessa entità politica, armonizzando le due diverse aree monetarie, anche la necessità di evitare la sperequazione fra solido longobardo, di buona lega, e il più modesto solido merovingio. Essi recano il nome CARLVS REX FR in leggenda circolare attorno ad una croce greca apicata al D/ e il nome della zecca e il monogramma di Carlo Magno al R/
Si venne dunque, a creare un sistema di rapporto libbra – solido – denaro, in cui 1 libbra (non coniata, ma valore di riferimento) comprende 20 solidi e 1 solido è pari a 12 denari, cosa che consentiva di percepire più facilmente il valore delle precedenti monete, con un immediato riferimento ai valori abituali. Nel Concilio di Francoforte del 794, si stabilì che i nuovi denari fossero accettati da tutti e in ogni dove (sia in Italia che in Gallia). E il sistema di rapporto di valori istituito proprio per la semplicità di collegamento fra sistemi monetari diversi, si radicò in tutto il mondo occidentale. Ma nonostante la forte impronta centralistica, sopravvisse alla riforma un elevato numero di zecche, forse per consentire il rinnovo della moneta (tramite la rifusione in zecca delle vecchie monete). L’attribuzione da parte del sovrano dello jus monetae ad autorità religiose o laiche non ledeva, comunque, le prerogative fondamentali dello stesso, demandando, eventualmente, solo la pianificazione quantitativa e temporale e concedendo il tasso di signoraggio. Denari furono coniati in Italia nello Stato pontificio che associa il nome del Papa a quello dell’imperatore e a Benevento, Napoli e Salerno, dove si emettevano ancora solidi, tremissi e follari, esiti dei vecchi folles romani. Quindi, la parte meridionale del Regno lasciava, proprio per merito di una siffatta riforma, coesistere monete di diversa tradizione (come sarà ancora in seguito), mentre nel Nord Europa la monetazione carolingia rimaneva stabile anche tipologicamente, conservando l’immagine dell’imperatore (non ritratto fisionomico). Con Ludovico il Pio, compare una frazione del denaro, l’obolo (v. ancora il confronto con la moneta antica greca), a testimonianza della necessità di disporre di nominali di piccolo taglio per una migliore adesione a diverse esigenze, sia del commercio che di altra natura, forse anche, contributiva o fiscale.
Sotto Ludovico anche Venezia, nell’820, emise denari di argento di tipo carolingio D28-29. diapo 6
Secc. X/XII L’unitarietà della riforma facilitò gli scambi e, quindi, lo sviluppo socio/economico della popolazione europea, che determinò un rilevante aumento della produzione monetaria da parte di un numero sempre maggiore di zecche, nell’ambito dei grandi regni, mentre in Italia si registra penuria di circolante, con esemplari che tendono sempre più ad allargare il diametro, forse a significare un apprezzamento del loro valore, fino all’896 quando Lamberto di Spoleto stabilisce di tornare al diametro tradizionale, forse per una necessità di riequilibrio tra lega metallica e peso. Anche in questa situazione di progressiva svalutazione, Venezia gioca un ruolo determinante: la sua moneta caratterizzata da largo bordo non coniato e croce chiodataè presente in contesti di circolazione effettiva e non in ripostigli selezionati perchè, evidentemente, più svilita nella lega. L’autonomia della città consentiva una politica monetaria più disinvolta e più sollecita alle esigenze del mercato, così come un rapido adeguamento ai rapporti di cambio con la sua partner di elezione orientale, Bisanzio che proprio nel X secolo entrava in sofferenza .
Sta di fatto che tutta la monetazione italiana subisce una svalutazione, attribuita alla volontà di Berengario II di svilire con rame le monete di argento da dare in tributo al re di Ungheria Taxis, (si ricordi Policrate di Samo e il piombo dorato) mentre esigeva dai sudditi buoni denari di argento, tenendo per sé quanto era avanzato. Che la notizia sia veritiera o meno, è certo in questo periodo che si cominciano ad indicare nei contratti le zecche di provenienza delle monete, il che sta ad indicare, evidentemente, un diverso grado di adulterazione della lega e dei pesi o, comunque, la necessità di un controllo dell’attività delle zecche (si confrontino le misure adottate in questo senso da Aureliano e Diocleziano. D’altro canto, un documento di Lotario II del 945 attesta la concessione al Vescovo di Mantova del diritto di conio, a patto che peso e lega siano concordati con le vicine città di Brescia e Verona; questo potrebbe lasciar trasparire la volontà di concedere una via di uscita alla variabilità dei rapporti di valore di debiti e crediti espressi in moneta, quanto meno con il rispetto di limitate aree monetarie. E’ con la riforma degli Ottoni di Sassonia che viene nuovamente fissato un peso (ridotto) e un intrinseco che deve essere osservato da tutte le zecche del regno (Milano, Pavia, Verona Lucca). Solo l'indipendente Venezia seguita ad emettere moneta svilita. Ma anche questa riforma fu di breve durata e ben presto si delinearono delle aree monetarie che, partendo da entità politico-amministrative, giunsero a comprendere diversi mercati monetari. Così il denariolucchese, diffuso in Italia centrale, il pavese nel regnum italicum e regioni meridionali, ma largamente usato a Roma, dove, evidentemente suppliva all’assenza di emissioni dovute alla chiusura della zecca tra il 975/80 e il 1180, il milanese in Lombardia, Piemonte, Emilia, il veronese, dalla Romagna al sud Tirolo e Carinzia e il denaro di Venezia nelle regioni adriatiche settentrionali, ma anche nelle aree coperte dal veronese. In questo periodo si registra l’apertura di nuove zecche, quali Genova D 39 e diapo 16 ed Asti D40.
Più tardi, quando i Normanni si insediarono in queste regioni, si adattarono al sistema di follari D43-44 e tari’ (1072) e importarono i loro denari di Rouen “romesine”.
La prima crociata (1097-99) sancì le sette valute ufficiali dei crociati, fra cui la moneta lucchese, che si diffuse come unità di conto nello Stato Pontificio e determinò emissioni di tipo occidentale negli Stati Crociati di Oriente, come ad Antiochia (con il soldato crociato ) o Gerusalemme, dove furono battuti anche bisanti saracenati, imitazioni del dinar arabo.
Secc XII e XIII In Italia meridionale il re normanno Ruggero II si trovò nella necessità di mettere ordine nelle questioni monetarie del suo regno che si trovava nel punto di confluenza di tre diversi sistemi monetari (tarì arabo, follaro bizantino e denaro carolingio). Avviò, dunque, una riforma (nel 1140), introducendo il ducale in argento, in rappresentanza del miliarense bizantino, pari a 1/12 del solido, in lega molto bassa, 500/1000. Pochi anni più tardi, Federico I, togliendo a Milano lo ius monetae, affidò ad una nuova zecca la coniazione di un denario, l’imperiale, di buon fino, che doveva essere convertibile con le più importanti valute del regno, ripristinando, così una omogeneità monetaria nei territori dominati, collegando il regno locale con il regno svevo di Sicilia e, quindi, il mondo tedesco.
Ma fu Venezia a trovare l’innovazione più rivoluzionaria per sostituire nel commercio internazionale sia i miliarensi bizantini che i dirhem arabi: fu il ducato di argento o grosso matapan, del peso di oltre gr. 2, emesso tra il 1194 e il 1201 dal doge Enrico Dandolo, moneta di stile e tipologia vicini alle emissioni romane di oriente , con figure frontali sedute o stanti. Tale moneta ebbe enorme fortuna per la sua funzione di raccordo tra nominali diversi, soprattutto dopo la conquista di Costantinopoli con la IV crociata, quando i Veneziani, avendo guadagnato il primato nei traffici con l’Oriente, ne facilitarono la diffusione, dal mare del Nord fino all’India (come era stato per il denario romano e poi il solido bizantino). Il ducato andò anche ad integrare le emissioni di Milano, Genova, Pisa Verona, Bologna e della Toscana, favorendo così la creazione di una solida area economica.
Lo stesso non accadde nell’Europa del Nord, in cui nacquero, invece, aree monetarie ben differenziate in rapporto al diverso potere di acquisto della moneta, che si andava sempre più assottigliando ed allargando, fino ad essere prodotta con una tecnica a sbalzo per produrre i ben noti bratteati, sottili monete con una faccia in rilievo e l’altra in incavo, ben diversi dagli incusi di Magna Grecia, prodotti, come è noto, con due conii indipendenti, uno a rilievo e l’altro in incavolink a tecniche monetali. La crisi dell’Impero bizantino e la creazione dell’Impero latino d’Oriente favorirono la nascita di nuovi fondaci che determinarono non solo l’incremento dei traffici veneziani, ma anche l’afflusso di maggior quantitativo di oro in Occidente, opportunità che colse Federico II, volendo affiancare al tarì un multiplo: le zecche di Messina e Brindisi coniarono, dunque, l’augustale, di gr. 5,31 con un fino aureo di 854/1000, del valore di 6 tarì.
Chiamato così per evidente riferimento alle monete del primo imperatore romano, fu moneta di prestigio, ma non sufficientemente apprezzata in Sicilia, dove si preferiva la vecchia moneta bizantina e non ebbe buona accoglienza e grande diffusione, come, invece le monete d’oro di tradizione carolingia, del peso di gr. 3,53 a 24 carati, emesse a Genova, il genovino e Firenze, il fiorino nel 1252, seguite da Venezia con il suo ducato, nel 1284, in difesa ed appoggio del suo matapan e via via dalle altre zecche italiane, fino a Roma. Queste spesso mutuano il loro nome da quello della zecca di emissione o dal tipo che le contraddistingue. Grazie alla facilità del sistema di conto per il suo rapporto di cambio semplice con le altre monete (genovino 10 soldi, fiorino 20) tale nuova moneta d’oro contribuì all’unificazione monetaria sulla base del mercato, anche senza riferimento al contesto politico. Questo generale assenso favorì lo sviluppo del credito e delle lettere di cambio, che evitavano rischiosi viaggi con valuta pregiata, potendo beneficiare di accrediti nei luoghi collegati, con conseguente notevole espansione commerciale e crescita delle operazioni finanziarie su vasta scala. Secoli XIII-XIV
Nascono così le Signorie di grandi casate nobiliari riciclate o di famiglie che avevano saputo far buon uso delle proprie attività commerciali e che investono grandi capitali in imprese pubbliche, sia di carattere culturale che religioso, certo con qualche tornaconto, non solo di carattere morale (si pensi all’attuale investimento degli utili, a scopi essenzialmente fiscali). Naturalmente, tutto questo coinvolgimento favorì anche la rinascita di una vecchia figura professionale, quella del cambiavalute (l’antico trapezita). La diffusione dei grossi d‘argento favorì le diversificazioni, quali il saluto (annunciazione) napoletano, con il suo corrispondente aureo D81/82, detti anche di gigliato o carlino. Ad Ancona compare l’agontano, con San Ciriaco stante. Il corrispondente francese fu il grosso tornese, così detto dalla lira di Tours emessa da Luigi IX nel 1266.
Quando il matapan veneziano, la più importante moneta d’Europa, entrò in sofferenza per problemi di approvvigionamento dell’argento e la concorrenza dei re di Serbia, in sua difesa Venezia decise con provvedimento legislativo nel 1284 di far battere una moneta d’oro, il già citato ducato, destinata a grandi successi, in grado di sostituirsi al fiorino e di essere richiesta sul mercato fino alla fine del secolo successivo diapo 37. La guerra scatenata da Padova per contrastarlo non ebbe alcun esito, se non la propria definitiva sconfitta.
Secolo XV Nell’ultimo trentennio del XIV secolo si era manifestata nuovamente quella mancanza di metalli preziosi che con alterne vicende era sempre stato il problema della moneta a valore reale: questo, assieme allo sviluppo demografico, in ripresa dopo il disastroso flagello della peste nera alla metà del secolo, acuì la necessità di provvedere con misure deflattive, quali il congelamento dei rapporti di cambio tra fiorini e quattrini e la distruzione annuale di una quota di quattrini, evidentemente per aumentarne il valore, oltre che recuperare metallo. Tuttavia, la nascita delle signorie del secolo precedente ed il consolidamento del potere personale dei signori fece rivivere una forma d’arte dimenticata da secoli, la ritrattistica. La ripresa, dopo circa 11 secoli, del ritratto fisionomico fu la grande novità del ‘400, sintomo dei mutati tempi e di un mutato spirito.
Colse questa opportunità ancora una volta, Venezia, che fu la prima ad attuare questa innovazione con una nuova emissione, supportata anche dalla grande disponibilità di argento proveniente dai filoni argentiferi recentemente emersi nel Tirolo, quella della lira Tron, dal nome e con il ritratto del doge che l’aveva voluta nel 1472, come sul bagattino, in rame; subito dopo la morte del doge, però, Venezia, memore della sua vocazione e grande tradizione repubblicana, tornò al meno compromettente Santo Patrono perché, giustamente, “i capi tiranni si mettono in medaglia e non i capi di repubblica” (cfr. ancora una volta il mondo antico tra Grecia, mondo ellenistico, Roma repubblica ed impero). Apprendiamo le preziose notizie relative all’attività della zecca per circa due secoli, dal registro della zecca stessa, il Capitolar dalle Broche.
Da questo momento, le fiorenti città italiane, certo per penuria di materia prima che non consentiva loro di competere con la forte concorrenza dei grandi Stati europei, ma certo rese deboli dalla loro stessa frammentazione politica, cominciarono a perdere il ruolo che nel campo economico e monetario in altri tempi avevano egregiamente svolto.
|
||||||||||||||||||||||||||||