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Sei in > Storia della Moneta > La moneta nel suo sviluppo storico > La moneta romana > La Moneta Romana Imperiale>Ottaviano/Augusto e i Giulio-ClaudiiFra repubblica e principatodi Mariano Malavolta Il momento del passaggio dalla repubblica al principato può considerarsi il nodo risolutivo non soltanto della storia romana, ma di tutta la storia dell’evo antico, una storia che si identifica con il progressivo confluire nella storia romana delle storie – più o meno minute e gloriose – delle singole genti stanziate nel bacino del Mediterraneo. Un momento di crisi epocale, dunque, che della sua centralità trova un riscontro immediato anche nel moltiplicarsi dei resti di manufatti antichi dentro il vasto territorio dell’impero, specie in Occidente, che è numericamente quantificabile con grande immediatezza, ad esempio, sulla base del dato dei documenti epigrafici, naturale completamento di ogni contesto monumentale (per le opere pubbliche, per le dediche votive, per i monumenti funerari). Se ci limitiamo alle iscrizioni raccolte nel Corpus inscriptionum
Latinarum dobbiamo constatare che fra le oltre 250.000 epigrafi qui raccolte,
soltanto poco più di 4000 testi si possono riferire all’età
repubblicana, con una proporzione, dunque, di meno di uno su sessanta. Repubblica e principato sono termini riferiti a realtà indubbiamente contigue, dal punto di vista della cronologia, che però si collocano idealmente alle opposte estremità di quella lunga e travagliata vicenda storica della “rivoluzione romana”, che giunse al suo epilogo con l’affermarsi del potere sostanzialmente monarchico di Augusto e con il definitivo tramonto dello Stato aristocratico, venato di oligarchia, della c.d. “libera repubblica”. Questo trapasso – non per ciò meno traumatico - fu abilmente dissimulato nel graduale ma puntuale realizzarsi di una fantasiosa ingegneria costituzionale che lasciò in gran parte intatta la fisionomia esteriore dell’antico regime, procedendo di pari passo ad una radicale quanto rivoluzionaria ridistribuzione dei contenuti del potere: l’imperium, la potestas, l’auctoritas degli antichi magistrati (consoli, pretori, tribuni della plebe, edili, questori). Uno dei tanti modi possibili di ripercorrere, oggi, quel percorso di epocali mutamenti – anch’essi dislocati in prossimità dello scadere di un millennio (se guardiamo a quel passato lontanissimo dallo schema cronologico della nostra era volgare) – può essere quello di ricostruire non tanto la storia politica e militare del secolo trascorso fra l’età graccana e la battaglia di Azio, quanto invece il mutare del volto del potere in quelle feste della politica (elezioni, adunanze del senato, scadenze celebrative) nel corso delle quali i rappresentanti dei ceti dirigenti e financo i semplici cittadini ebbero occasione di osservare quel volto un po’ più da vicino e furono costretti a decifrarne il linguaggio, o anche a ripeterne più o meno servilmente le formule. Per l’uomo romano (che in questo campo merita di
essere considerato un vero intenditore, specie da noi, che siamo da considerare
degeneri pronipoti) imperium, potestas e auctoritas sono gli
ingredienti indispensabili nella cucina del potere, che realizzano il
perfetto amalgama nella persona di colui che di questo potere è
detentore. L’azione riformatrice di Ottaviano a conclusione
di questo travagliato periodo poté dunque ben essere presentata
come opera di restaurazione della legalità repubblicana, anche
se di fatto essa comportò una modifica sostanziale dell’assetto
funzionale delle antiche magistrature, rimodellato e adattato alla sostanza
monarchica del nuovo potere del principe. Tutti questi poteri si rispecchiavano nella titolatura ufficiale del capo dello Stato, che oltre alla menzione della tribunicia potestas, comprendeva i titoli di imperator (divenuto un vero e proprio prenome, al posto di Gaius), di Augustus (dal 27), di pontifex maximus (dal 12, dopo la morte di Lepido), di pater patriae, e delineavano la figura del princeps, che richiama l’esistenza dei principes o primores civitatis dell’antica tradizione repubblicana, con la differenza che stavolta non vi sono più principes, ma un solo. Questo termine, che peraltro non assunse mai un valore ufficiale, fu prescelto dallo stesso Augusto a definire la sua posizione nello Stato; egli infatti non volle, a differenza di Sulla o di Cesare, assumere la carica di dictator, che in Roma aveva sempre avuto un carattere straordinario ed eccezionale, ma preferì essere princeps, e principato fu il nome del regime costituzionale da lui creato. La stessa logica ispirò l’azione innovatrice di Augusto quando, dopo questo momento iniziale di accentramento delle prerogative di potere, egli passò – assistito da abili consiglieri come Mecenate – ad una serie di provvedimenti legislativi che miravano a completare lo smantellamento dell’antica costituzione svuotando di contenuto la potenzialità delle magistrature repubblicane (dal consolato alla questura, formalmente conservate nel suo progetto di riforma) per far luogo all’espansione del forte potere autoritario del principe. A questo scopo rispondeva la creazione di un apparato amministrativo
fortemente centralizzato e affidato per lo più a funzionari di
rango equestre, che sottrasse via via la più gran parte delle competenze
di governo alle magistrature propriamente dette (che rimanevano affidate
ai personaggi di rango senatorio, ossia alla nobilitas patrizio-plebeia)
e che preludeva al progressivo smantellamento dei privilegi prima garantiti
alle societates publicanorum e ai pochi mancipes (un’aristocrazia
della finanza, fatta di individui che Cicerone chiamava publicanorum principes)
titolari di esclusive lucrosissime perché collusi con la nobilitas
senatoria (è questo uno degli aspetti più interessanti del
nuovo corso inaugurato da Augusto, anche se non è questo il luogo
per discuterne in modo approfondito). Il colpo di grazia al prestigio
delle antiche magistrature fu dato, però, dalle profonde modifiche
introdotte nel sistema della creatio dei magistrati (ossia le
elezioni, vero baluardo della libertas, o “democrazia”
repubblicana) con la riforma dei comizi, che finì col riservare
al principe un capillare controllo sulle carriere dei singoli individui. In questo contesto desumibile dai dati della tradizione (che concordemente afferma per l’età augustea una effettiva, se pur limitata o limitatissima, possibilità di intervento dell’assemblea dei comizi centuriati nell’elezione di alcuni magistrati) si inserisce con parecchi risvolti problematici la testimonianza di importanti documenti epigrafici che hanno riportato alla luce testi di provvedimenti legislativi sulle procedure elettorali da seguire nella destinatio dei magistrati di rango più elevato, ossia dei consoli e dei pretori. Dalla lettura di questi testi si evince che, almeno a partire dal 5 d.c., la destinatio dei consoli e dei pretori veniva effettuata non già e non più dai comizi (ossia dal populus) ma da un’assemblea ristretta composta di senatori e di un certo numero di cavalieri (quelli che esercitavano funzioni giudiziarie: una funzione accordata una prima volta agli equites all’epoca della lex iudiciaria fatta approvare da Gaio Gracco nel 122). Poco meno di un migliaio di notabili (a fronte delle centinaia di migliaia di cittadini che partecipavano ai comizi) i quali al momento del voto erano raggruppati in dieci centuriae Caesarum (intitolate ai defunti Gaio e Lucio Cesari). Il numero delle centurie di questa assemblea ristretta salì a quindici nel 20 d.C., allorché furono istituite altre cinque centurie intitolate al defunto Germanico, e ancora a venti nel 23, allorché furono istituite altre cinque centurie intitolate al defunto Druso. L’ultima parte del testo della rogatio Valeria Aurelia (così
sembra che debba correttamente indicarsi il documento in questione), che
si può datare al dicembre del 19 e che divenne lex all’inizio
dell’anno successivo, si legge nella c.d. “tabula Hebana”,
e contiene frequenti riferimenti alla lex Valeria Cornelia del 5 d.C.,
della quale nessuna fonte aveva conservato il ricordo. Nella c.d. “tabula
Siarensis”, rinvenuta in epoca più recente, possono
leggersi nell’ordine un primo senatusconsultum datato 16 dicembre
del 19 d.C., un secondo senatusconsultum datato alla fine dello stesso
mese e, infine, la parte iniziale della rogatio Valeria Aurelia, ossia
del progetto di legge (contenuto in gran parte nella tabula Hebana)
che i consoli designati avrebbero dovuto presentare al popolo subito dopo
la loro entrata in carica all’inizio dell’anno successivo
(20 d.C.). Infine il testo della c.d. “tabula Ilicitana” andrebbe
distinto da quello della tabula Hebana, e riferito ad un provvedimento
analogo ai precedenti, adottato nel 23 d.C. – come si è detto
– in onore del defunto Druso. Nella nuova prassi del principato, ben consolidata già in pieno
regno di Augusto, l’imperatore interveniva ovviamente già
nella fase della preparazione delle liste dei candidati (facendo sentire
il suo peso nella nominatio), sia attraverso i poteri ormai istituzionalmente
acquisiti di destinare egli stesso un numero sempre più elevato
di suoi candidati (mediante la pratica della commendatio, introdotta già
da Cesare, con effetto vincolante per l’elezione dei candidati Caesaris),
sia caldeggiando de facto l’elezione dei candidati non compresi
nella lista dei commendati (mediante una suffragatio). Il Mommsen riuscì a scovare una delle più importanti conferme di questa sua interpretazione proprio là dove questa evidenza sarebbe dovuta essere: nel testo lacunoso delle res gestae dello stesso Augusto, a lui noto nella versione greca del monumentum Ancyranum, dove egli leggeva il vocabolo greco axìoma, corrispondente con il latino dignitas, e questa integrazione del testo latino lacunoso s’impose contro la lettura auctoritas “umilmente” proposta dal Franz, ma subito “bocciata” dalla incontrastata autorevolezza del Mommsen. Post id tempus, si legge invece nel testo latino delle res gestae, restaurato grazie alla testimonianza di un frammento di Antiochia, auctoritate omnibus praestiti, potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri, qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt. In questo passo, secondo la lettura del Mommsen, vi sarebbe stata un’allusione a colleghi del principe in questa particolare dignitas, il principato, il cui contenuto di potestas sembrava, almeno in qualche occasione, condiviso in regime di collegialità. Si trattava, invece, di uno di quei casi in cui il testo latino recava un vocabolo non traducibile in lingua greca (la stessa cosa può dirsi per espressioni come magistratus, maiestas, manceps), che assolutamente non poteva, se non con un piccolo colpo di genio, essere ‘divinato’ dall’esegesi del testo greco. La testimonianza del monumentum Antiochenum ha contribuito molto al superamento della teoria mommseniana, e l’espressione delle res gestae è stata correttamente intesa come un diretto e puntuale riferimento a coloro che furono effettivamente colleghi di Augusto nelle singole magistrature (quoque in magistratu), come Agrippa e Marcello: un riferimento, tuttavia, nel quale ad Augusto riuscì con particolare efficacia di esprimere la differenza fra poteri del magistrato e primato dell’imperatore, che si manifestava nella speciale auctoritas (sua personalissima prerogativa) che lo poneva al di sopra dell’imperium o della potestas dei singoli magistrati, così come lo poneva al di sopra dei vincoli della legge, in quanto princeps legibus solutus, con una formula veramente geniale, che individuava nell’inedita figura del princeps il demiurgo inviato dalla provvidenza divina a completare le potenzialità dell’innata predisposizione al potere del popolo romano (tu regere populos imperio Romane memento). Si rivelava così, della sequenza imperium – potestas – auctoritas, una lettura non soltanto sincronica, orizzontale (intesa quasi, lo abbiamo visto, come lo spettro della luce del potere emanante dalla figura del magistrato), ma anche diacronica, verticale, che si inverava e s’incarnava storicamente nel processo evolutivo subìto dall’assetto costituzionale dello Stato, dall’epoca del potere assoluto del rex a quella del potere delegato del magistrato, che con Augusto giungeva finalmente al compimento – avrebbe detto Aristotele – della sua entelechia, ossia al raggiungimento del télos insito nel codice genetico della razza, con l’avvento di quella figura di supremo garante del pubblico bene impersonata dal principe nell’interesse dell’intera comunità dei ciues, e, dunque, in sostanza, a spese dell’oligarchia che aveva dominato sul tramonto della repubblica. Ho insistito, in maniera forse un po’ troppo pedante, su questo particolare dell’esegesi di un pur importantissimo testo e su un vocabolo non meno importante, auctoritas, chiave interpretativa del principato di Augusto e, quindi, del trapasso dalla repubblica al principato, perché sono convinto che questa vicenda della lettura delle res gestae abbia un efficace valore esemplare: il Mommsen vi appare nella veste di vittima, sia pur illustre, della sua propria auctoritas nel campo degli studi per eccesso di fiducia nella validità della sua costruzione, che indusse in lui altrettanta fiducia nell’affidarsi a quel “processo logico” o “processo deduttivo” che tutti conoscono, e che è stato magistralmente teorizzato da Conan Doyle per bocca dell’infallibile Sherlock Holmes: “una volta eliminato tutto ciò che è impossibile, quello che rimane, per improbabile che sia, non può essere che la verità”. Sono pochi invece a sapere dell’errore compiuto – nel nome di quel metodo – dal giovane Holmes, che all’età di 11 anni, durante una vacanza in campagna con i genitori, dopo aver osservato attentamente con un binocolo il villino dei vicini, dedusse che i bambini non vengono portati dalla cicogna, ma dalla levatrice in una valigetta. Il giovane Holmes, pur attentissimo osservatore delle “spie” che sostanziano la realtà indiziaria, ignorava un aspetto non certo secondario della vita degli umani, mentre Theodor Mommsen è stato e resta il più grande storico dell’antichità. Chi guarda al suo esempio è sicuramente sulla via giusta, ma ricorderà, tenendo conto di quella disavventura, che indagando il passato, prima di fidarci del metodo della nostra scienza, dovremo imparare a non sottovalutare il peso della nostra vastissima ignoranza. |
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